La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 2977/2025, torna a occuparsi di un tema centrale nella gestione del personale: il licenziamento per giusta causa in presenza di comportamenti violenti sul luogo di lavoro. Il caso affrontato riguarda un episodio di aggressione fisica tra dipendenti, sfociato in un licenziamento disciplinare ritenuto legittimo tanto in sede di merito quanto dalla Suprema Corte.
L’interesse della pronuncia non si limita all’esito, ma coinvolge una serie di principi chiave – dal ruolo del giudice nella qualificazione dei fatti al rispetto del principio di proporzionalità – utili per comprendere quando un datore di lavoro può (e deve) intervenire con il massimo provvedimento disciplinare.

Alterco o aggressione? La linea sottile che fa la differenza
Il primo aspetto analizzato dalla Corte riguarda la natura della condotta: non si è trattato di un semplice scambio verbale o di un diverbio acceso, ma di un’aggressione fisica con lesioni documentate. La differenza è sostanziale. Mentre l’alterco può essere tollerato o sanzionato con misure intermedie, un comportamento aggressivo – specie se reiterato o accompagnato da uso di oggetti contundenti – compromette irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra datore e lavoratore.
Esempio pratico: un litigio verbale tra colleghi in pausa pranzo, se isolato e contenuto, può rientrare nei casi di richiamo o sospensione. Diverso è il caso in cui uno dei due impugni una bottiglia e provochi ferite: in questo scenario, come chiarito dalla Cassazione, l’intervento espulsivo è giustificato.
Giusta causa e autonomia del giudice: il ruolo delle clausole generali
La sentenza valorizza il principio secondo cui spetta al giudice di merito, sulla base del concreto accadimento, stabilire se sussistano gli estremi della giusta causa. L’art. 2119 c.c. – norma “elastica” per definizione – richiede una valutazione rigorosa ma non predeterminata, che tenga conto del contesto e delle modalità della condotta.
Nota per le imprese: non basta l’iscrizione di un comportamento nell’elenco del codice disciplinare per garantire il successo di un’azione espulsiva. È sempre necessario che il fatto sia valutato nella sua gravità effettiva e nella sua capacità di incrinare la fiducia reciproca.
Il codice disciplinare non è un elenco chiuso: serve coerenza con il contesto contrattuale
Il parametro della giusta causa non si esaurisce nel contratto collettivo o nel regolamento aziendale. La Corte ricorda che le disposizioni contrattuali integrano la valutazione, ma non la sostituiscono. Spetta sempre al datore dimostrare che la sanzione sia coerente con il fatto addebitato e con l’equilibrio complessivo del rapporto.
Esempio pratico: se il codice disciplinare sanziona genericamente “atti di violenza” con il licenziamento, è comunque necessario verificare se la condotta in questione rientri in tale previsione e se l’intensità dell’azione giustifichi la massima sanzione.
Il principio di proporzionalità non è un automatismo
Nel ribadire la legittimità del licenziamento, la Cassazione ricorda che la sanzione deve essere proporzionata alla condotta. Nel caso analizzato, la presenza di lesioni, l’uso di un oggetto potenzialmente offensivo e la mancanza di atteggiamenti collaborativi da parte del dipendente licenziato hanno portato a ritenere che la prosecuzione del rapporto fosse diventata intollerabile.
Riflessione operativa: non esiste una “soglia oggettiva” di gravità. Ogni comportamento va valutato nella sua complessità, anche in relazione alla condotta pregressa del lavoratore, al ruolo ricoperto e alla sensibilità dell’ambiente aziendale.
La motivazione del giudice è parte della legalità
Infine, la Corte respinge l’argomento secondo cui la sentenza impugnata sarebbe “apparentemente motivata”. La motivazione, infatti, è chiara, coerente e sviluppata secondo criteri logico-giuridici condivisibili. Questo passaggio ci ricorda che la motivazione è lo spazio entro cui il giudice rende conto del proprio operato: non solo ai fini dell’impugnazione, ma come elemento fondativo della certezza del diritto.
Implicazione pratica: quando un datore di lavoro adotta un licenziamento per giusta causa, è bene che il procedimento disciplinare, la contestazione e l’eventuale provvedimento finale siano documentati in modo preciso e strutturato, così da agevolare la difesa in caso di impugnazione.
La sentenza n. 2977/2025 della Cassazione conferma che, in presenza di condotte violente sul luogo di lavoro, il licenziamento per giusta causa può rappresentare una reazione non solo legittima, ma necessaria per la tutela dell’equilibrio aziendale. Tuttavia, perché la scelta sia efficace anche sul piano giuridico, è essenziale che sia fondata su una valutazione concreta, proporzionata e formalmente ineccepibile.
Per le imprese, questo significa affiancare all’azione disciplinare una solida consulenza legale, capace di orientare la strategia verso un esito coerente, difendibile e, soprattutto, conforme al principio di legalità.