Con la sentenza n. 605/2025, la Corte di Cassazione ha stabilito un principio di particolare rilievo per la tutela dei lavoratori con disabilità: lo smart working, quando compatibile con la prestazione, può costituire un accomodamento ragionevole che il datore di lavoro è tenuto ad adottare ai sensi del D.lgs. 216/2003. La decisione si inserisce nel solco tracciato dall’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE, che impone misure concrete per garantire l’effettiva inclusione lavorativa delle persone con disabilità.
Nel caso di specie, un lavoratore con disabilità aveva richiesto di svolgere la prestazione da remoto, ma l’azienda si era opposta, senza fornire motivazioni documentate. La Corte ha respinto il ricorso del datore di lavoro, affermando la legittimità della decisione del giudice di merito che aveva imposto il lavoro agile come accomodamento ragionevole.

Smart working come misura di accomodamento: non è una concessione, ma un diritto condizionato
La Corte ha riconosciuto che il lavoro agile può costituire un vero e proprio strumento di inclusione lavorativa, non più relegato a opzione organizzativa, ma da considerarsi – in presenza di determinati presupposti – una misura obbligatoria. In particolare, quando il lavoratore è in grado di svolgere la prestazione da remoto senza comprometterne gli obiettivi, e quando l’organizzazione del lavoro lo consente, il datore è tenuto a valutare la possibilità di adottare tale soluzione. Non si tratta di un diritto assoluto, ma di un diritto “ragionevole”, fondato su criteri di proporzionalità e sostenibilità.
Esempio pratico: un lavoratore affetto da una patologia cronica che non compromette l’efficienza lavorativa ma rende rischioso l’ambiente fisico (es. immunodepressione) può legittimamente chiedere di operare da casa. Se l’attività è in larga parte digitale, e l’azienda non dimostra oneri organizzativi rilevanti, la richiesta è fondata.
Il datore di lavoro ha un obbligo attivo di adattamento
Ai sensi dell’art. 3, comma 3-bis del D.lgs. 216/2003, il datore è tenuto ad adottare misure concrete, efficaci e personalizzate per garantire l’accesso e la permanenza al lavoro del dipendente con disabilità. La mancata adozione di tali misure, anche se non motivata da intento discriminatorio, costituisce una forma di discriminazione indiretta. La sentenza sottolinea che il datore deve dimostrare di essersi attivato, non basta opporre motivi generici o consuetudini aziendali.
Esempio pratico: un rifiuto basato sulla semplice “presenza necessaria in ufficio” non è sufficiente. Occorre valutare le mansioni, i risultati attesi e le reali esigenze del servizio, documentando in modo puntuale ogni limite organizzativo.
Il giudice può imporre lo smart working, in mancanza di accordo
Una delle affermazioni più significative della pronuncia è che, in assenza di un accordo tra le parti, è il giudice a dover individuare la soluzione più ragionevole e adeguata. La Corte chiarisce che il lavoro agile, in quanto accomodamento ragionevole, può essere imposto con sentenza, qualora risulti lo strumento più efficace per garantire l’equità del trattamento. L’azienda, dunque, non può sottrarsi a tale misura solo perché non ha voluto negoziarla.
Esempio pratico: laddove il medico competente abbia certificato che l’esposizione a determinati ambienti aggrava la condizione del lavoratore, e la prestazione sia telelavorabile, il giudice può decidere che il datore sia tenuto a consentire il lavoro da remoto.
Inclusione e sostenibilità: il bilanciamento va dimostrato
Il principio di inclusione trova un limite nella proporzionalità dell’onere a carico dell’impresa. Tuttavia, il datore di lavoro ha l’onere di provare che l’accomodamento richiesto sia eccessivamente oneroso, incompatibile con il funzionamento dell’organizzazione o con l’equilibrio tra lavoratori. Il giudizio di bilanciamento non può basarsi su formule generiche: richiede elementi oggettivi, dati organizzativi e motivazioni specifiche.
Esempio pratico: sostenere che “tutti devono essere presenti” non è una motivazione sufficiente. Dimostrare che la presenza fisica è necessaria per motivi di sicurezza o coordinamento continuo può invece fondare un legittimo rifiuto.
L’ambiente lavorativo inclusivo diventa parametro giuridico
Infine, la Corte introduce un’espressione destinata ad avere risonanza futura: ambiente lavorativo inclusivo. Non è più solo una finalità etica o aziendale, ma diventa uno standard giuridico cui deve tendere ogni datore di lavoro. Il mancato adeguamento a tale paradigma può determinare conseguenze legali: sanzioni, obblighi risarcitori, ordine di adozione di misure specifiche.
Esempio pratico: un’organizzazione che non ha mai attivato protocolli di inclusione, che ignora le richieste dei lavoratori fragili e che non prevede strumenti flessibili sarà più esposta a contenziosi per condotta discriminatoria.
Con la sentenza n. 605/2025, la Corte di Cassazione ha rafforzato il legame tra smart working e diritto antidiscriminatorio. Il lavoro agile, da misura organizzativa eccezionale, diventa – in specifici contesti – un obbligo giuridico per garantire l’effettiva inclusione lavorativa del dipendente con disabilità. Le imprese sono chiamate ad adeguare i propri assetti, a documentare le proprie scelte e a costruire un ambiente lavorativo realmente accessibile.
Lo studio è disponibile per affiancare datori di lavoro e lavoratori nella valutazione e nella gestione giuridica degli accomodamenti ragionevoli, con attenzione alle esigenze concrete, alla sostenibilità organizzativa e alla piena conformità normativa.